COSÌ FAN TUTTE

L’Ouverture di Così fan tutte

"Così fan tutte è giudicata da alcuni l’opera mozartiana in cui domina la Ragione;
qui sarebbe nascosto il segreto dell’incorruttibile giovinezza di questo spartito,
al quale dovrebbero andare, e andranno probabilmente in avvenire, le preferenze di
tutti gli spiriti liberi, quelli che vedono nella musica – come vedeva il Nietzsche –
un’arte di catarsi capace di giocare con le forze del Cosmo.”
Eugenio Montale


L’Ouverture di Così fan tutte è l’unica tra quelle delle opere maggiori di Mozart a non essere eseguita in concerto come pezzo sinfonico. A una prima lettura appare da subito evidente: essa non ha il rilievo sinfonico di quella di Zauberflöte né l’irresistibile originalità di quella di Don Giovanni.

Dopo poche battute dell’Andante introduttivo inizia il Presto: alcuni motivi si inseguono in una specie di inesauribile moto perpetuo. Dagli archi ai fiati, dal primo al secondo tema, dalla tonalità di base esplorando altre tonalità più o meno vicine, questa linea di crome che serpeggia scivola via in cerca di qualcosa che non trova.

Ecco il Secondo Tema! Niente, è uguale al primo; ecco lo Sviluppo: si va un po’ di qua e un po’ di là ma è sempre la stessa musica. Mai un punto di arrivo, mai un’affermazione positiva, conclusiva; tanta energia ma alla fine non rimane nulla di concreto tra le mani. Perché?

Mozart descrive così il moto continuo e inconcludente degli umani affetti, il vagare senza posa dell’innamorato che crede di padroneggiare una situazione che in realtà lo tiene in pugno; mette in musica l’insensatezza dell’Eros, il labirinto tragico/gioioso dei sentimenti.

Si apra il sipario sul Desiderio che genererà un altro desiderio che genererà un altro desiderio che genererà un altro desiderio…

Questa Ouverture è troppo legata al significato umano e teatrale dell’opera per cui è nata per poter vivere da sola in concerto.

IL II° ATTO

Ogni cosa in Così fan tutte parla della doppiezza dell’animo umano. Della trilogia mozartiana, questo è l’unico libretto originale; lo spunto è tratto dall’Ariosto ma lo svolgimento è personale. È l’ultimo scritto da Da Ponte prima di esser costretto a lasciare Vienna.

L’intera vita di Emanuele Conegliano, nato nel ghetto di Ceneda - oggi Vittorio Veneto - e convertito dal vescovo Lorenzo Da Ponte che lo battezzò con il proprio nome, è stata all’insegna della doppiezza; prima ebreo convertito al cattolicesimo, poi addirittura prete se pure irrefrenabile libertino; uomo di lettere ma imprenditore fallimentare, primo Professore di Letteratura Italiana nella storia della Columbia University di New York ma anche droghiere, impresario, libraio, avventuriero…

Nel II° Atto Mozart, su testo di Da Ponte, erige un monumento alla complessità del desiderio e all’inafferrabilità dell’animo umano.

Alcuni esempi.

Nel Duetto n. 20 tra Fiordiligi e Dorabella le parole conclusive sono “ed intanto che diletto, che spassetto io proverò”: nelle fasi conclusive del pezzo appaiono da prima cantate in modo responsoriale in una semifrase che si interrompe con una fermata alla Dominante - batt. 52 e 53 - poi riprese in un episodio ritmicamente marcato e dal carattere leggero in si b maggiore - batt. 54-57; Mozart, al termine di questa frase, indugia ripetendo per due volte la parola “io proverò…” su delle sincopi che trasmettono indecisione e disorientamento - batt. 58-60 - e al termine di queste, attraverso una cadenza d’inganno che ci fa sentire l’accordo inatteso di sol minore (viole!) risentiamo le stesse parole ma stavolta in un episodio dal carattere singhiozzante e malinconico  -batt. 62-68 - in cui la posizione fondamentale dell’accordo di Tonica viene raggiunta alla fine solo attraverso ulteriori sincopi in cadenza. Su un testo così ingenuo Mozart in poche battute crea un mondo! Il “diletto e lo spassetto” sono prima desiderati ma non compiuti, poi finalmente vissuti con spensieratezza, infine, attraverso l’indecisione data dall’ambivalenza della parola “proverò”, sono vissuti con disagio e malinconia.

Il Duetto n. 23 tra Dorabella e Guglielmo – introdotto dalla bifronte esclamazione del recitativo precedente “Infelice Ferrando! Oh che diletto!” – inizia con frasi sospese che danno il senso del desiderio e dell’indecisione; l’incertezza cresce nella seconda parte quando, dopo una fermata, Mozart ricomincia giocando con la nostra percezione ritmica. Invece di riprendere sul battere, come sarebbe prevedibile  -batt. 39 - inizia sull’ultimo movimento e così fanno i due solisti la battuta successiva: l’intero passaggio accordale che ne viene  - batt. 39-48 - sulle parole “ei batte così...”, con i controtempi dei fiati e gli accenti sfasati, rende il senso di un battito cardiaco irregolare, dell’ansia amorosa, dell’eterna lotta tra desiderio e pudore che stringe gli amanti. Al termine di questo episodio un pedale dei corni rimette diritto il discorso e Guglielmo e Dorabella, disorientati, dicono “Qui lascia che il metta“, “Ei qui non può star”. Tutta la parte conclusiva di questo Duetto consiste nell’affermare e poi negare, nel proporre e poi ripensarci, nell’andare alla Dominante e poi tornare subito alla Tonica senza alcun reale percorso, senza alcun costrutto. Pure le ultime battute dell’orchestra sono un’affermazione del clarinetto, che vorrebbe…, e una risposta del corno, che forse non può.

Il culmine della doppiezza si ha nel Finale II°.

Nell’episodio in la b maggiore “E nel tuo, nel mio bicchiero…” - batt. 173 e seguenti - in cui si apre alla riconciliazione (qualunque altro compositore avrebbe musicato questo testo con un Brindisi!), Fiordiligi, Ferrando e Dorabella si completano vicendevolmente in un commovente contrappunto dal carattere lirico; l’ingresso di Guglielmo - la quarta voce - però è una sorpresa: entra sottovoce con una linea che pare un recitativo buffo in cui dice “Ah bevessero del tossico…”! Insomma non sta al gioco, non completa il contrappunto, deride gli altri con un materiale musicale eccentrico e del tutto decontestualizzato.

Nella Scena Ultima poi le frasi sono sempre sospese alla Sottodominante o alla Dominante e così pure nella stretta finale - Allegro molto - batt. 576 - lo scorrere dell’azione è continuamente interrotto da fermate inattese e ripartenze che trasmettono il conflitto tra “i turbini” della vita e il desiderio di trovare “la bella calma” in mezzo a essi. Il finale dell’opera è dunque tutt’altro che trionfale: parla più della ricerca di un equilibrio che di una conquistata felicità.

Una metafora dell’Eros perfetta: alla fine tutti sono soddisfatti ma nessuno lo è del tutto; ognuno ottiene ciò che voleva in principio ma deve constatare che in realtà è diverso da come pensava che fosse.