L’ULTIMO VIAGGIO DI GIACOMO PUCCINI

Puccini parte per il suo ultimo viaggio verso Bruxelles portando con sé alcuni fogli di appunti su cui spera di riuscire a lavorare. Teme e forse in parte già sa che non terminerà quella partitura che nei tre anni precedenti era cresciuta tra le sue mani fino ad assumere proporzioni magniloquenti. Quei pochi fogli, in seguito passati al setaccio da generazioni di studiosi, contengono abbozzi, spunti e soprattutto la speranza che la sua creatura più ambiziosa – Turandot – non debba restare per sempre incompiuta a causa di quelle due orribili parole che i medici hanno tanto esitato a dirgli: carcinoma laringeo.

Immagino la paura con cui Puccini intraprese quell’ultimo viaggio della speranza; lo vedo nelle terribili peripezie della malattia che stringe quegli ultimi fogli di carta da musica, ostinatamente attaccato a Turandot come si è attaccati a ciò che si ama nel momento del pericolo estremo. La Principessa è presente fino alla fine nelle sue lettere: “Sono grave! Ti puoi figurare il mio animo. (…) Che Miserie! Turandot? Mah! Non averla finita, quest’opera, mi addolora. Guarirò? Potrò finirla in tempo?”. L’inquietudine che domina quest’opera fin dall’inizio diventa tutt’uno con l’inquietudine del suo autore che affronta il suo ultimo viaggio senza ritorno; la preoccupazione di non riuscire a far diventare la Principessa una donna innamorata coincide alla fine con la paura di non sopravvivere e di non poter tornare a casa.

Fino a quel punto del terzo atto Puccini era riuscito a superarsi e ne era consapevole: l’ampliamento dell’organico orchestrale aveva arricchito la sua tavolozza espressiva riuscendo a rendere l’elemento orientale e fiabesco senza cedere al folklore; per il popolo, onnipresente e plurale personaggio che amplifica l’aura dei protagonisti, aveva trovato una scrittura corale di inedita varietà che univa l’apoteosi al sussurro fino al parlato; la commistione tra l’elemento tragico e la commedia delle Maschere era venuta naturale e dettava ritmi teatrali perfetti all’intera vicenda: ogni cosa insomma aveva trovato il proprio posto con la spontaneità che solo il talento concede.

Puccini era riuscito nel secondo atto a rendere in modo stupendo la cattiveria della protagonista; con efficace realismo era riuscito a dar voce alla crudeltà senza cadere nel pittoresco. Egli era riuscito laddove molti non lo credevano capace: rappresentare il male! Il poeta del sentimento - e per i suoi detrattori del sentimento facile - aveva creato un sublime mostro in cui la complessità psicologica, il conflitto erotico, l’esasperazione del carattere si mescolavano scolpendo a tutto tondo una figura teatrale autenticamente contemporanea.

Era arrivato ora però al punto temuto fin dal principio: la catarsi risolutiva dell’ultimo duetto. Puccini aveva vessato i suoi librettisti facendolo rifare almeno quattro volte: per la decisiva scena del bacio non sappiamo se egli avrebbe alla fine puntato, come poi fece Alfano, sull’orgoglio ferito della Principessa o invece su una trasformazione interiore, come farà Berio sviluppando qui un episodio sinfonico. Sappiamo che egli voleva, secondo un appunto in quei fogli portati con sé nell’ultimo viaggio, “trovare qui melodia tipica, vaga, insolita”. E ancora, scriveva in una lettera ai librettisti: “Urge commuovere alla fine!... Perciò niente retorica! Il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli frementi.” Dicendo “travaso d’amore” aveva senz’altro in mente il secondo atto del Tristano di Wagner e nell’affrontare la scena del bacio immaginiamo avrebbe tenuto presente la complessità emotiva – in cui ribrezzo e attrazione erotica si intrecciano – del mostruoso bacio di Salomè alla testa di Jochanaan, del molto ammirato Strauss.

Egli si ritrovava adesso al momento finale e doveva sbrogliare la matassa con lo strumento che meno aveva amato in passato: un Duetto. Il teatro di Puccini infatti è un teatro di sentimenti individuali e il suo strumento principe è l’Aria; al contrario di Verdi, che concepisce il teatro in termini sociali e dunque fa crescere i suoi personaggi nel continuo confronto con altri personaggi, il Duetto per Puccini è al massimo un momento distensivo - “Non la sospiri la nostra casetta…” in Tosca - o una sublimazione di Arie precedenti – “O soave fanciulla…” in Bohème. Turandot offriva finalmente a Puccini la sfida di concludere un’opera con un vasto Duetto amoroso – come in Aida - in cui trasfigurazione simbolica e realtà dei sentimenti dovevano tenersi per mano creando un’empatia irresistibile. Una sfida che non sapremo mai come avrebbe vinto.

Puccini puntava ad avere un finale emotivamente complesso, antiretorico; un finale che rendesse credibile la metamorfosi della protagonista mostrandone le contraddizioni e le tortuosità. Un finale sì risolutivo ma che non fosse una vittoria. La morte prematura di Puccini ha fatto in modo che il finale di questo capolavoro sia forse per noi oggi ancora più sofferto di quanto il compositore potesse immaginare. Ogni volta che arrivo alle battute finali di Alfano di questa grande partitura - mentre il coro in tripudio parla di “infinita felicità”- sento la somma di sconfitte che si danno appuntamento tra quelle righe che non riescono a essere entusiasmanti come vorrebbero. Penso a Puccini che muore a Bruxelles e che non torna dal suo ultimo viaggio, penso alla frustrazione di Toscanini che non sa cosa fare con questa incompiuta di un amico morto prematuramente, penso ad Alfano che rimane schiacciato in un paragone impossibile e sento un retrogusto tanto amaro a quell’apoteosi conclusiva da esserne sopraffatto.