“SAPETE CANIO È VIOLENTO, MA BUON!”

Una riflessione su Pagliacci di Ruggero Leoncavallo 

In una torrida estate calabrese, verso il 1860, il giovane figlio di un pretore assiste a un fattaccio di sangue: dei poveri guitti si scannano per gelosia durante una rappresentazione sulla pubblica piazza. Un atto osceno, uno squarcio di orribile verità che si insinua nella sua immaginazione educata di bravo ragazzo meridionale. Una verità che ha l’odore del sudore, delle strade e dei sentimenti sporchi; una verità che non tollera maschere e che scavalca il palcoscenico.

Una trentina d’anni dopo Ruggero Leoncavallo troverà la consacrazione definitiva rielaborando quella memoria d’infanzia nella sua opera prima: Pagliacci. Opera prima e in un certo senso definitiva. Pagliacci è l’opera in cui gli echi verdiani, l’influenza di Bizet e la giovanile adorazione per Wagner trovano una sintesi originale; l’opera in cui la poetica della “giovane scuola” verista esprime il proprio idioma in modo compiuto; è l’opera capace di mescolare una visione colta del teatro, memore dell’antica Commedia dell’Arte – il Prologo come manifesto poetico, il teatro nel teatro - con il sangue e la veemenza dei tempi nuovi. Leoncavallo trova la sua “voce” ed è una “voce” schietta e sincera.

Pagliacci è la tragedia di un uomo: Canio troneggia al centro della vicenda sia da un punto di vista drammatico che musicale; egli è il perno attorno cui l’intera partitura si avvita, dal folklore iniziale fino all’inevitabile dramma conclusivo.

Le magniloquenti scene corali che aprono entrambe gli atti sono il benvenuto che il Coro – l’Ogniuomo di questa rappresentazione sacro-profana – dà all’ancora ignaro protagonista della tragedia. E così quasi tutti i leitmotiv musicali sono legati al protagonista: l’amore di Canio, Canio che minaccia, Canio che soffre, Tonio che trama alle spalle di Canio, Nedda che trema per la sua presenza o si innamora di Silvio in sua assenza; fino al tema che, anticipato dai corni nel Prologo, anima il celebre “Vesti la giubba…”, in cui i sentimenti del protagonista arrivano al dramma dell’autoconsapevolezza. Canio è qui stretto tra esigenze della scena e tumulto interiore; la maschera costringe l’uomo a una sincerità insostenibile: è il tema della tragedia di Canio che esplode in tutta la sua urgenza.

Canio è un personaggio musicalmente contraddittorio. La sua prima Aria “Un tal gioco, credetemi…” ne descrive già l’ambiguità: la musica è suadente e tenera ma le parole sono quelle di chi minaccia. Dopo tale sortita ogni momento della sua parabola è contraddistinto da doppiezza: ama Nedda ma la disprezza, non vorrebbe andare in scena ma deve farlo; urla disperato “No, pagliaccio non son…” proprio perché in fondo sa di esserlo e, poche battute prima di cedere all’ira furibonda diventando un assassino, accusa Nedda dicendole “sol legge è il senso a te…”.

Canio verso il finale dell’opera – nel culmine del grande cantabile “Sperai, tanto il delirio accecato m’aveva…” – acquista la statura di un’autentica vittima tragica: si dibatte in un conflitto che non potrà superare e vi si consegna tuttavia a testa alta.

Il simbolo musicale di questo grande personaggio verista è la grancassa!

Leoncavallo concepisce Canio come un capocomico che armato della sua grancassa – celebre la storica fotografia di Enrico Caruso - chiami il pubblico ad assistere alla rappresentazione. La grancassa di Canio è certo il tellurico furore della sua gelosia ma è anche lo strumento con cui richiama una parte fondamentale di sé: il pubblico!

Canio è infatti attore, monta e smonta palcoscenici per campare; vive mettendosi di continuo una maschera di fronte al pubblico. Ma consumato ormai dalla gelosia, durante la Commedia del secondo Atto, egli compie un gesto irrimediabile: si toglie la maschera davanti al pubblico. Può vedere allora se stesso chiaramente riflesso negli occhi della sua platea: è allora sì, una volta per tutte, è un Pagliaccio, con o senza la maschera!

Leoncavallo aveva sognato in gioventù di portare in Italia il Gesamtkunstwerk wagneriano; riesce invece in qualcosa di diverso: crea un idioma musicale caratteristico che, nel corso del secolo scorso, è diventato l’emblema stesso di un’Italia popolare e autentica che ha ispirato dai clown di Fellini ai grandi film hollywoodiani fino all’iconografia più spiccia. Leoncavallo è riuscito in fondo a tagliare lo stesso traguardo che universalmente si riconosce a Wagner: aver scritto della musica in grado di rappresentare un popolo intero, cogliendone in modo definitivo il carattere e contribuendo così a delinearne il destino.

Quel ragazzo che negli anni dell’unità d’Italia aveva visto un teatrino di guitti in una piazza calabrese, evidentemente ha saputo cogliere qualcosa di essenziale nello spirito di quel paese nascente: nascosta tra le pieghe di un’esistenza miserabile e precaria vi era l’esigenza di vedere riconosciuta la propria dignità. Canio è il canto di quel popolo ed è un canto che ancor’oggi ci dà un brivido.